Mezzo di propaganda ideologica e di controllo
sociale
Nella prima metà del XX secolo si chiude, per una
parte almeno dell'umanità, l'epoca in cui la maggioranza
della popolazione è esclusa dalla vita politica a
causa della sua ignoranza. Le classi lavoratrici, nelle città industriali
con alta densità di popolazione ma anche nei piccoli
centri, diventano più informate di quanto non siano
mai state nel passato e sono in condizione di formarsi un'opinione
sui problemi più diversi. L'opinione pubblica diventa
una realtà e la stampa, definita anche come il quarto
potere nell'ambito dello schema ideale della divisione
dei poteri di Montesquieu, assurge a parte integrante dello
stato costituzionale moderno. Un'epoca segnata però da
contraddizioni, cadute e resurrezioni per la democrazia in
Occidente e per l'insieme dell'Umanità.
La Prima e la Seconda Guerra Mondiale,
il nascere e l'affermarsi di regimi e stati dittatoriali,
il determinarsi di eventi tragici mai prima conosciuti
dall'Umanità, come l'Olocausto
degli Ebrei ed i Progrom nei confronti di Minoranze linguistiche
e culturali, fenomeni di radicale disumanizzazione dei singoli
e delle comunità civili, hanno indotto grandi personalità e
scuole dell'analisi politologica, sociologica e storica a
ritenere che la funzione politica dei media sia fondamentalmente
ed inesorabilmente quella di portare al conformismo di massa
e ad una crescente quanto inesorabile integrazione delle
masse nello Stato autoritario.
Eppure, attraversata anche l'epoca
della Guerra Fredda e della contrapposizione dei Blocchi,
ciò che si è verificato,
nell'ultimo ventennio del secolo XX, non è stato il
rafforzamento dello Stato, passato anche attraverso la fase
del welfare e dell'uso dei mezzi di comunicazione - ed in
modo particolare la televisione - come agenzie di socializzazione
e di acculturamento, ma al contrario l'affermarsi della deregolamentazione,
che ha portato allo sviluppo della competitività dei
mercati e all'indebolimento delle istituzioni pubbliche.
Tutto ciò certamente anche in reazione a e per vincere
la competizione con il socialismo nelle sue forme burocratiche
e stataliste, con ciò ponendo le premesse per i processi
attuali di globalizzazione dell'economia.
La strategia di deregolamentazione
delle istituzioni e dei mercati, che è stata agita dalle élites finanziarie
e politiche in primo luogo, a partire dagli anni '80, ha
potuto servirsi dei media, ma nella maggior parte dei casi
questo risultato è stato ottenuto senza bisogno di
un controllo diretto e oppressivo, ma più efficacemente
giovandosi delle routine dei mezzi d'informazione e sfruttando
la stessa logica dei media, ossia l'insieme di quei requisiti
di semplificazione, di sensazionalismo e di spettacolarizzazione
degli eventi e dei temi che i media per loro natura sono
inclini a seguire.
In questa fase la funzione sociale
dei media, interessati da una formidabile azione di avvicinamento
alle esigenze di comunicazione delle imprese attraverso
la pubblicità, è stata
quella di accompagnare e favorire la differenziazione sociale
piuttosto che l'integrazione.
Un fenomeno che, per molti anni, era
sembrato caratterizzare soltanto gli Stati Uniti, ma che
dal finire degli anni '80 diviene dominante nell'intera
area dell'Europa, ridimensionando in modo sostanziale le
esperienze di servizio pubblico, nonostante le prese di
posizione degli stessi vertici dell' Unione Europea. Le
conseguenze paventabili, indotte dai media nell'epoca della
deregolamentazione e della globalizzazione, sono allora
il dissolvimento delle identità sociali, la perdita
della memoria storica, la diffusione dell'allarmismo e delle
paure collettive nei confronti degli “stranieri”.
Più che di massificazione appare più appropriata
l'immagine delle “folle solitarie”, come aveva ben intuito
David Riesman, di pseudocomunità di individui che
non sono più capaci di scambiare senso, e questo pur
in presenza della forme nuove di comunicazione offerte dalle
reti.
Più che “apparati ideologici di Stato”, al servizio
di un progetto autoritario, come li definiva Louis Althusser
negli anni Settanta, i grandi media divengono agenzie in
cui l'organizzazione del lavoro è sostanzialmente
dettata dalla automaticità e dalla casualità delle
routine, e spesso agiscono in termini di irresponsabilità sociale.
Di qui i timori e la “predicazione” sulla televisione di
Karl Popper sul finire della sua esistenza.
La concezione dei media come apparato
ideologico avente la funzione di integrare le masse nei
regimi autoritari del tardo capitalismo, così come l'hanno formulata i teorici
della “Scuola di Francoforte” negli anni ‘60, è un
punto di vista che non lascia spazio a chi vuole modificare
il modo di operare dei media. Viceversa, la concezione
dei media come apparati che agiscono sovente in modo irresponsabile
impone di interagire con i professionisti della comunicazione,
di confrontarsi con essi e di operare per una diversa strutturazione
delle pratiche comunicative. Ciò è molto importante
nella fase attuale di globalizzazione, considerati i rischi
e i pericoli che essa comporta, in primo luogo quelli della
concentrazione transnazionale dell'industria della comunicazione
nelle mani di corporazioni oligarchiche.
Nel contempo aumentano le forme di
spettacolarizzazione e di voyeurismo sociale e la pretesa
di sempre maggior visibilità da
parte delle élites, di ogni tipo e qualità,
porta ad un uso estensivo degli scandali politici. Ma soprattutto
questa maggior visibilità dei governanti, la loro
necessità di dover rendere conto del proprio vissuto
pubblico e privato, scatena ondate di emotività e
di populismo, nelle quali alla televisione può accadere
anche di essere usata come una sorta di gogna pubblica o,
com'è stata definita, di “ghigliottina elettronica”.
Le conseguenze di questi fenomeni,
per i quali manca ancora una teoria capace di un quadro
organico e di una spiegazione all'altezza della loro complessità, non sono rassicuranti;
essi rischiano di peggiorare ulteriormente la qualità stessa
della democrazia, se non si saprà elaborarli ed affrontarli
adeguatamente.
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