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Seminario di Infocivica in collaborazione con Globus et Locus

Milano - 15 gennaio 2009

Presenti: Piero Bassetti, Fausto Colombo, Livia D’Anna, Edoardo Fleischner, Giacomo Mazzone, Gerardo Mombelli, Bino Olivi, Remigio Ratti, Giuseppe Richeri, Bruno Somalvico, Ivana Trevisani

Remigio Ratti: Sono stato per sette anni direttore della RTSI. Parto dal mio osservatorio svizzero, quindi dal local. La Svizzera è plurilingue, quindi costituisce un buon punto di partenza; è una delegazione di cantoni, quindi in un certo senso è libera dal retaggio nazionale. La regola di partenza è stata che ogni comunità, etnia avesse diritto ad avere un servizio radiotelevisivo equivalente. La Svizzera italiana rappresenta il 4,5 % della popolazione svizzera ma ha come gli altri due canali televisivi e tre radio (che non sono ripartite partiticamente). Una regola come questa ha creato un sistema radiotelevisivo positivo, osservato anche come esempio da altri sistemi radiotelevisivi. Il modello è riuscito bene per la lingua italiana. Il laboratorio ha funzionato. Era una televisione che veniva concepita sì per gli svizzeri, ma sapeva di essere vista anche nello stivale. Dal 2000 a oggi ho constatato come un modello potenzialmente bello, diminuendo i mezzi (in termini relativi, il nostro canone comunque è tre volte quello dell’Italia) ha deciso di occuparsi principalmente di Svizzera. C’è stata una involuzione interna. Invece di sviluppare il modello e vederlo nella sua modernità c’è stata una specie di introversione. Io sono stato tra i primi a introdurre il digitale terrestre, l’Italia non ha rispettato i tempi e con la sparizione del vecchio segnale analogico della RTSI, mi sono visto accusare di aver oscurato la tv svizzera agli italiani. Mi sono adeguato ai nuovi media, al web. Ho trattato con l’Italia per il superamento delle frontiere. Ho tentato inutilmente con Rai, Mediaste e con Fastweb. Dopo che sono andato via il progetto Italia è stato tagliato. Paradossalmente le frontiere contano ancora, e c’è tutto un problema enorme riguardante i diritti. Ho cercato di applicare la politica transfrontaliera ai media e ho scoperto le radio e le televisioni sono quasi tutte nazionali e che c’è una convenzione europea transfrontaliera che non incide per nulla sul fenomeno.
Con la filosofia glocal bisogna fare altro. Ho posto il problema al Consiglio d’Europa e si è arrivato a un congresso a Berlino dove è stata formulata una raccomandazione, la n. 157 (che vale quel che vale) che afferma il diritto dovere delle popolazioni che vivono su una frontiera di ricevere le radio tv dell’uno e dell’altro paese di frontiera e magari costruirne una comune.
Esistono i grandi network mondiali, però non servono la nostra causa del glocal, non favoriscono lo scambio di prodotti o la cooperazione per progetti di media transfrontalieri.
Riassumendo l’esperienza svizzera vale come laboratorio, ha un vissuto che è stato positivo, malgrado questo però le ultime indicazioni sono di difficoltà. Andare al di la delle frontiere è necessario, soprattutto per una piccola realtà come quella italofona in svizzera. Il mio successore Balestra gioca la carta multimediale al massimo pur con varie difficoltà. In seconda serata c’è la “La tele”, televisione vagamente a metà tra la citizen tv e il reality, i conduttori sono giovani e bravi e pur nella banalità delle situazioni proposte, riescono a interessare gli spettatori, pur con il rischio che il taglio resti troppo local.
Infine, non va trascurata anche l’esperienza della Comunità Radiotelevisiva Italofona e del successo del Convegno di Tirana dell’ottobre scorso che ha prodotto l’interesse di diverse reti dei paesi dell’est ad aderire alla Comunità Italofona.