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DOSSIER SUL SEMINARIO DI AMALFI ( 15-16 settembre 2000)

Tv e comunicazione di pubblica utilità/4

Rivista Italiana di comunicazione pubblica, II (6) dicembre 2000, pp. XXX-XXX

Giornalisti oggi.
Produzione delle notizie e verifica delle fonti nell'informazione multimediale in tempo reale

Licia Conte

Il sistema delle comunicazioni di massa muta perennemente, mutando al contempo la nostra percezione del reale. Alcune delle conseguenze di questo processo sono già a noi chiare. Il muro di Berlino sarebbe caduto se la Tv non avesse reso desiderabile la vita all'ovest per i tedeschi dell'est? E che dire degli albanesi in cerca dell'Eldorado nel nostro Paese, perché attratti dai lustrini di Domenica In o dei fantastici premi dei vari quiz televisivi? E parliamo di informazione: come dimenticare il volto di Ceaucescu, impietosamente scrutato dalle telecamere di tutto il mondo, quando capì prima con stupore, poi con sgomento di avere davanti a sé non la folla plaudente cui era abituato, ma una piazza rumoreggiante e inferocita? E ciononostante sarebbe caduto quel regime se la Tv non avesse mostrato a tutti, anche ai rumeni, quella piazza e quel volto? Tutto ciò è storia. Anche se sono pochi gli anni che ci dividono da quegli avvenimenti, non è retorico dire che quelle Tv ci hanno mostrato la storia nel suo farsi; e, forse, ne hanno accelerato il corso.

E ora siamo nel bel mezzo di un'altra incredibile vicenda, la cui portata non è ancora del tutto valutabile, o per lo meno non è ancora pienamente valutabile; le elezioni presidenziali americane. Sono una dei tanti giornalisti nel mondo cui è toccato la non invidiabile sorte di annunciare via radio al mattino dell'8 novembre: “signori, George Bush jr è il nuovo presidente degli Stati Uniti”. Peggio! Per circa tre minuti ho commentato con un altro giornalista collegato con me in diretta da S. Francisco le ragioni che avevano indotto gli americani a scegliere l'uomo dell'antipolitica, l'eroe della provincia (lui, il cui padre è stato inquilino della Casa Bianca per otto anni!) piuttosto che il democratico e ambientalista Al Gore. Dopo un'ora, sconvolta, ho scoperto che, come tutti gli altri giornalisti del mondo, avevo annunciato una cosa non vera, o, meglio, non ancora vera. Mentre scrivo, e sono passati giorni e giorni da quell'8 novembre, ancora non sappiamo, infatti, chi è il nuovo Presidente americano.

E tutto ciò, con buona pace di una delle regole-cardine del giornalismo: quella che impone a noi tutti l'obbligo della verifica delle fonti! Ma chi è fonte, e come si fa a verificarla, all'epoca di Internet? Ma se tutto arriva insieme e contemporaneamente! Se pure l'avversario sbaglia e va a congratularsi con il non vero, o non ancor vero, vincitore? Chi, insomma, verifica, che cosa, se vogliamo dare in fretta, sempre più in fretta – in tempo reale – le notizie? E, d'altra parte, si può in nome di una maggiore correttezza dell'informazione, rinunciare alla diretta, al “tempo reale”? È vero: quel che è accaduto con le elezioni americane non conferisce autorevolezza al nostro mestiere, pure possiamo a cuor leggero rinunciare in nome delle prudenza al “tempo reale”? E, come si fa a decidere a priori, qual è una buona diretta e quale no? Quella di Bucarest ci è piaciuta, no? E che dire di quelle da Tien Anmen e da Berlino la notte del muro? Quella è grande Tv, non è vero? La più grande di tutti i tempi, non è così? E, per piacere, qual è la differenza?

E gli interrogativi sulla “diretta” non sono l'unico punto problematico in un mondo in così rapida trasformazione, come quello dei media. Un altro nervo scoperto? Basta porre una domanda semplice, semplice: serve ancora il servizio pubblico? E, che cosa è dopotutto? Fino a poco tempo fa, la risposta era facile, persino un po' banale: l'organizzazione attraverso aziende di Stato di palinsesti radiotelevisivi. Ora, è però tutto meno chiaro. Ora, infatti, noi esitiamo a definire servizio pubblico, senza aggiungere qualche distinguo e qualche però, il prodotto di alcune aziende pubbliche. Il senso comune ci dice infatti che queste ultime, per essere competitive, hanno via via sempre più operato attraverso offerte non dissimili da quelle private. Se dunque la fonte del finanziamento, pubblico o privato, non è sufficiente a discriminare tra radio e Tv pubblica e radio e Tv privata, qual è l'ingrediente che fa la differenza ? Insomma, dov'è e che cosa è la qualità “servizio pubblico”? Varie sono state, e tuttora sono, le risposte a questa domanda. Qualcuno, ad esempio, ritiene che la Tv di Stato per distinguersi debba essere colta, o almeno elegante e ben confezionata; insomma, una sorta di “Premio Italia” continuo.

Qualcuno, considerando vacue queste posizioni, ha deciso invece che la qualità “servizio pubblico” non esiste. Come la pietra filosofale di antica memoria: dove sia nessun lo dice, cosa sia nessun lo sa. Dunque, una frottola di cui sbarazzarsi in fretta. Chi professa questa opinione, ragiona pressappoco così: l'intervento dello Stato nelle comunicazioni di massa, utile nel passato per dare impulso a un settore nuovo e inesplorato, ora che il settore è maturo, non serve più. La presenza dello Stato, ormai sinonimo di burocratismo, parassitismo e lottizzazione, rischia di essere ridondante o, persino distorcente. In ogni caso, imbarazzante.

Queste considerazioni – diretta, tempo reale, verifica delle fonti, servizio pubblico – aleggiavano nel corso del convegno sulla informazione Infocivica, svoltosi ad Amalfi a metà settembre 2000. Il convegno, in verità, aveva un tema importante, ma più circoscritto. Lì ci si limitava a chiedersi se, e quanto, possa essere utile un'informazione istituzionale, specificamente concepita e costruita per dare risposta ai bisogni di istruzione e formazione civica del cittadino. Ovviamente, gli organizzatori del convegno hanno sostenuto la loro proposta con molti, e molto condivisibili, argomenti. E, così, è stato delineato un quadro della situazione dei servizi pubblici in Europa, si è parlato delle nuove regole Ue, si è detto che l'informazione istituzionale, anziché esaurirsi nelle sia pur lodevoli iniziative di Radio Radicale e Radiorai-Parlamento, ha da essere multimediale, altrimenti non dà al cittadino tutti gli strumenti utili per saperne di più e, quindi, imparare a contare di più. Che è il fine ultimo e supremo di ogni democrazia e, dunque, il fine, ultimo e supremo, dell'informazione istituzionale.

Ad Amalfi , però, ed era forse inevitabile, l'interrogativo “Serve l'informazione istituzionale?” alludeva anche ad altro. Dietro ogni intervento e, soprattutto, ogni discussione, faceva capolino la domanda: “serve ancora – e come, e come deve essere – il servizio pubblico?”. Chi difendeva con enfasi la necessità, pur ovvia, dell'informazione Infocivica, lasciava trasparire un interrogarsi più profondo, quasi un rovello, che aveva per oggetto l'intervento, evidentemente sentito da molti come irrinunciabile, dello Stato nella Tv generalista. Ne è scaturito in quel contesto – Amalfi appunto – un dibattito bizzarro, appassionato e oscillante. Si parlava di Infocivica, ma si alludeva continuamente alla Tv generalista di Stato.

Due i livelli della discussione, due anche i tipi di partecipazione al convegno. Insieme a operatori a vario titolo della comunicazione di massa, erano presenti anche gli studenti di un corso post-universitario. I giovani erano lì per partecipare dall'interno alla costruzione insieme a noi di una proposta di offerta radiotelevisiva inedita. Una presenza entusiasta ed entusiasmante? Né l'una cosa, né l'altra. A sorpresa, la loro si è dimostrata una presenza scettica, che è rapidamente precipitata in una presenza critica. Al di là dei possibili fraintendimenti sugli scopi del convegno, la critica aveva una mira ben precisa: l'informazione istituzionale, sentita come inutile e insopportabilmente tediosa.

Nel momento in cui la critica da latente si è fatta esplicita, i temi del convegno si sono intrecciati e confusi fra loro più che mai; e i partecipanti si sono divisi lungo una traiettoria generazionale. Tutti parlavano di tutto senza distinguere, ormai, tra informazione istituzionale e servizio pubblico generalista: i convegnisti più' anziani in difesa, i giovani all'attacco. A nulla è valso ogni tentativo di dialogo. I giovani hanno continuato a riaffermare testardamente – si potrebbe persino dire a testa bassa – la loro estraneità ai temi proposti e con un comunicato hanno tenuto a dissociarsi da essi. Polemiche interne al corso universitario? Forse. Certo, però, non può che far riflettere la loro manifestazione di estraneità, se non addirittura di ostilità, verso la comunicazione istituzionale. Due, allora, le mie riflessioni a caldo: i giovani, sensori attentissimi delle tendenze di fondo della società, non amano confondersi con ciò che sentono desueto, “vecchio”; loro direbbero non trendy . E non c'è nulla di meno trendy dell'informazione Infocivica! Purtroppo, non è trendy neppure la Tv di Stato; e, forse, non lo è la stessa idea di Stato. Meditate, gente, meditate! – direbbe Arbore.

Altra riflessione a caldo: i giovani non riuscivano neppure ad argomentare il loro punto di vista. Erano persone normali, con tanto di laurea e, probabilmente, una buona cultura di base. Avrebbero potuto mettere in campo chissà quante considerazioni interessanti! Non lo facevano. Ostinatamente, ribadivano la loro indisponibilità al dialogo. La loro caparbietà segnalava che quel loro punto di vista così poco argomentato, era irrinunciabile. Anzi! Era, forse, poco argomentato proprio perché irrinunciabile; come sempre accade quando si ha a che fare con questioni di identità. Loro – questa in quel momento la mia impressione – difendevano la loro identità giovanile, proiettata verso il futuro, messa a repentaglio da noi e dalla nostra proposta “vecchia”. Oggi, più meditatamente, mi sento di confermare quelle impressioni fugaci. Quei giovani, in consonanza con i loro coetanei – i dati di ascolto parlano chiaro – ci dicevano: non c'è amicizia fra noi e le radio e le Tv di Stato. Quel rapporto, per ora, è chiuso. Va semmai ricostruito.

Nel concludersi il convegno ha in seguito ritrovato il suo asse, la sua ragion d'essere: l'informazione istituzionale. Che, si è detto lì ad Amalfi, non è quella dei telegiornali e neppure quella dei giornali di carta stampata. Non obbedisce, infatti, alla regola aurea del giornalismo, quella secondo la quale non fa notizia un cane che morde un uomo, ma l'uomo che morde un cane. L'informazione istituzionale, si è detto, risponde ad altre logiche, segue altri criteri, perché ha suoi scopi precisi: deve contribuire ad avvicinare le istituzioni ai cittadini, rendendo note a questi ultimi le opportunità che le prime offrono, facendo al contempo conoscere alle istituzioni medesime i bisogni vecchi e nuovi della popolazione.

In risposta alle ansie dei giovani, si è poi detto che una siffatta programmazione non necessariamente ha da essere tediosa. Se la politica – e in quel convegno tra politica e tedio alcuni non distinguevano tanto – è il committente di un tal progetto, non significa che ne debba essere anche architetto ed esecutore. Che in una parola, non si deve saltare il nodo della professionalità. Così come un sindaco non si sognerebbe mai di progettare ed eseguire da sé un edificio pubblico, allo stesso modo un politico non deve neppure poter ipotizzare di fabbricare da sé l'informazione o, peggio, continuare con la pretesa di controllarla attraverso risibili fiduciari. Professionisti di buon livello possono rendere fruibile – si è detto ad Amalfi –persino l'informazione Infocivica, a patto di scovare per definirla un nome più accattivante. E, soprattutto, smettere con la pratica dei fiduciari e della lottizzazione. Ridare spessore e fiducia alla professionalità è l'unica strada rischiosa, ma utile per ricostruire il rapporto, ora incrinato, tra cittadini, soprattutto giovani, e Stato.

Sì all'informazione Infocivica, quindi. Che dire comunque dell'intervento di Stato nella Tv generalista? Serve proprio? Non è sufficiente, come ora tutti dicono, il mercato a produrre fiction, informazione e, insomma, buoni palinsesti? Tanti i punti di vista. A parte quello giovanile, ad Amalfi il tifo era per una Tv non tutta commerciale; per un sì rinnovato a un qualificato intervento dello Stato nella Tv generalista, purché depurato, liberato dal soffocante abbraccio di una cattiva politica: quella che non sa starsene nei propri confini. Ma, l'interrogativo sulla Tv pubblica resta: perché non basta il mercato, ora che è così ricco e pluralista? Perché, conseguentemente, non bastano le Tv commerciali? Una risposta c'è e lì, ad Amalfi, era convincente. Lì si ragionava pressappoco così: la Tv generalista ha a che fare con i sogni e l'identità. E, cioè, ha a che fare con la storia di un popolo. Ora, se non si vuole lasciare la scuola, o almeno tutta la scuola, al mercato, ancor meno vogliamo lasciargli intera la fabbrica dei sogni.

Questo si è detto ad Amalfi. Una comunità nazionale, si è detto lì, non ha bisogno soltanto di una comunicazione efficace tra le proprie istituzioni e la cittadinanza. Ha, forse, ancor più bisogno di un luogo in cui depositare la memoria di sé, per raccontarla a se stessa infinite volte, e in forme diverse. Un luogo dal quale attingere quel senso di identità forte che solo permette di affrontare senza paure le sfide dell'incontro con altre culture. Un luogo che serbi memoria della lingua che ci ha costruiti come nazione, che, per dirla con Cacciari, ci ha fatto italiani. Un luogo dal quale pensare istituzioni democratiche forti per il nostro Paese e per l'Europa, un luogo dal quale pensare il mondo con amicizia e spirito di confronto aperto al dialogo. Un luogo, in una parola, di libertà, ma anche di memoria e di costruzione delle molteplici identità, che sempre più dovremo assumere. Poiché dovremo essere al contempo cittadini di comuni, di regioni sempre più autonome, del nostro Stato e dell'Europa. La Tv bernabeiana ha contribuito a farci italiani, a dare a tutti noi la nostra lingua. Non abbiamo ancora bisogno di una Tv che ci faccia pensare, ma anche sognare in europeo?

Ma, è ancora possibile – questo è il punto – dare questo senso alto al servizio pubblico radiotelevisivo? Che è come dire: è ancora possibile riguadagnare la fiducia dei cittadini nella politica? È ancora possibile che i politici pensino in grande, facendo un passo indietro rispetto alle proprie convenienze, e restituendo al contempo alla politica la dignità di una missione? I giovani presenti al convegno di Amalfi ci hanno lasciato capire di non credere più a questa ipotesi e, dunque, di non ritenere né utile, né interessante l'intervento statale nella trasmissione delle informazioni e dei saperi e tanto meno – penso – nella fabbrica dei sogni. Il loro scetticismo però può anche suggerirci l'inverso. Che non bisogna dar loro retta, che loro nutrono una fiducia nel mercato e nella sua capacità di autoregolarsi, che è forse eccessiva. Che tutto ce lo testimonia: dall'ambiente disastrato, a mucca pazza, tutto ci dice che se non ci occupiamo di nuovo dei casi nostri, non c'è nessun dio che lo farà per noi. Anche le elezioni americane ci dicono che forse non è una buona idea lasciare la vicenda della Casa Bianca nelle mani di due staff elettorali. Dunque, se dietro il no al servizio pubblico radiotelevisivo, c'è anche la crisi della politica, la sfida va raccolta e rilanciata. Come? Una tal risposta, un tal discorso esorbitava dai compiti che il pur ambizioso convegno di Amalfi si era proposto.

È certo però che organizzare una buona offerta multimediale di Informazione Istituzionale è iniziativa che va nella direzione giusta. Praticare con professionalità e competenza questa strada: questo, forse, il modo per far nascere una nuova fiducia tra cittadini e Istituzioni. Chi l'ha detto poi che non se ne gioverebbe anche la professione giornalistica? L'abitudine all'informazione istituzionale potrebbe indurre i giornalisti a ripensare il proprio mestiere e le regole ferree che, per ora, lo governano. Tutto cambia, per fortuna, tutto si trasforma. E, un giorno, i fabbricatori di notizie potrebbero svegliarsi e accorgersi di aver mandato in soffitta la cara vecchia regola aurea su quel che fa notizia. Il cane che morde l'uomo o l'uomo che morde il cane? Bah!