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di servizi di pubblica utilità nella società dell'informazione.“
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Virtù e vizi del nuovo approccio al sistema italiano delle comunicazioni
Il futuro assetto del servizio pubblico e il suo finanziamento

 

Osservazioni sul Disegno di legge Gentiloni
e sulle proposte di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi


contributo alla discussione di Bruno Somalvico
(Segretario Generale Associazione Infocivica - Gruppo di Amalfi)

15 gennaio 2008

IL DDL GENTILONI. VIRTÙ E VIZI DEL NUOVO APPROCCIO AL SISTEMA ITALIANO DELLE COMUNICAZIONI

Rispetto a quanto annunciato dal nuovo Governo, cerchiamo di indicare e salutare i punti di convergenza, senza peraltro sottacere i punti di dissenso e le zone grigie che meritano senza dubbio ulteriori approfondimenti anche in sede tecnica come quelli avviati ad esempio dall’Isimm con alcuni giuristi sul documento Petruccioli e che sono proseguiti in maniera assai convincente nel documento proposto dagli amici di Reset e di Tecnology Review. Partiamo dalla visione d’insieme contenuta nel DDL Gentiloni. Ci pare vi sia una maggiore consapevolezza dei vizi strutturali del sistema televisivo italiano, dal nanismo e dall’esiguità delle risorse che riesce complessivamente a raccogliere, del fatto che l’avvento di nuove piattaforme più del digitale terrestre lo renda sempre meno protetto e che occorra fare i conti con nuove dimensioni d’impresa in un mercato globale che rischia a termine di emarginare soggetti che operano unicamente in ambito nazionale.

Per evitare qualsiasi fraintendimento sgombriamo due equivoci che potrebbero sorgere da una lettura errata che vedrebbe in questa difesa del servizio pubblico una difesa dello status quo.

Primo equivoco da sgombrare. Non si tratta di mantenere l’attuale assetto della Rai mai riformato dal 1975 e di adattarlo sic et simpliciter al nuovo comparto multimediale.

Vanno semmai capite innanzitutto le ragioni che ne hanno pervertito nel tempo le ambizioni (ad esempio il mancato ruolo delle Regioni) e snaturato le finalità (i concetti di partecipazione e di accesso interpretati da un lato in senso di estensione della lottizzazione, dall’altro di conventio ad exludendum dei partiti dell’arco costituzionale), cercando poi di identificare quanto poi di quel gran progetto possa essere oggi – depurato da questi pervertimenti – essere ripreso, adattato al nuovo contesto caratterizzato non più tendenzialmente dalla dittatura dell’Auditel e degli ascolti, quanto dal primato della diretta e del tempo reale da un lato (per la tv post-generalista) al ritmo di una comunità precisa di riferimento (non solo la comunità nazionale, ma anche una comunità locale o un continente, un’area geografica, al limite la comunità – mondo), dall’altro (per i prodotti a utilità ripetuta e soprattutto per quelli tematici e di nicchia) caratterizzato da nuovi criteri di visibilità, promozione, ma anche classificazione e indicizzazione per scaricare a richiesta dalla Rete la tua dieta mediatica.

Si tratta di capire ad esempio quanto una Community in rete o una Telestreet possano entrare a far parte legittimamente del NUOVO TERRITORIO DEL SERVIZIO PUBBLICO MULTIMEDIALE ovvero di un’area composita e non monolitica in grado di declinare non più le classiche offerte radiotelevisive verticali veicolate attraverso palinsesti lineari, ma di presiedere in maniera oculata tutte le piattaforme o le potenzialità anche di interazione con i cittadini, qualunque essi siano, dovunque essi risiedano, ripensando profondamente il concetto di coesione sociale e soprattutto individuando NUOVE ZONE DI INTERVENTO PRIORITARIE quali ad esempio l’alfabetizzazione civica e l’integrazione delle popolazioni immigrate, e combattere contemporaneamente utilizzi perversi di questi nuovi strumenti di informazione e comunicazione per arricchire e non per restringere l’orizzonte dei cittadini (ad esempio oscurando emittenti antisemite o che spingono alla guerra fra civiltà ecc.).

Sotto questo profilo la presenza della BBC multimediale a cominciare dal proprio sito costituisce nuovamente un faro, un punto di partenza come lo sono stati John Reith e la radio britannica dagli anni Venti in poi. Invito dunque tutti a leggere il Libro Verde del Governo Costruire un Regno Unito digitale per capire quali sono le responsabilità della politica e di chi presiede la cosa pubblica nell’elaborazione di un programma di medio termine che investe il ruolo del servizio pubblico nella società dell’informazione

Secondo equivoco da sgombrare. Va ripensato il ruolo della Rai o se volete della nuova Rai Multimediale nella società dell’informazione,

nel senso che la sua auspicabile centralità non può significare monopolio assoluto dell’azienda nel presidio delle missioni e delle attività editoriali di servizio pubblico in questo scenario molto più composito.

L’esperienza britannica con Channel Four, quella duale fra polo federale (ARD) e polo nazionale (ZDF) in Germania, fra RTVE e Autonomicas in Spagna, l’esistenza stessa in Francia di un «settore pubblico» (ARTE, i due canali parlamentari dell’Assemblea Nazionale e del Senato della Repubblica, e i due canali internazionali partecipazione mista France 24 e la francofona TV5) distinto dal servizio pubblico France Télévision che non dispone nemmeno dell’integralità del canone, ripartito insieme ad altre società pubbliche (Radio France, INA, SFP, TDF), tutte queste realtà di fanno ritenere che in questo nuovo comparto la Rai non possa pretendere di mantenere una posizione di monopolio nel mercato del servizio pubblico, ma che al contrario vada favorita una situazione di sinergia ma anche di relativa competizione fra più soggetti pubblici o comunque giudicati mission oriented ovvero di pubblica utilità e privi di finalità commerciali profit oriented. E qui va appunto ripensato il ruolo dell’associazionismo, dei Comuni delle Province e delle Regioni, degli stessi Ministeri dell’area del Welfare (istruzione, ricerca e università, lavoro, difesa, interno, protezione civile, turismo e beni culturali), e infine l’apporto dell’Unione Europea ma anche di altri organismi internazionali e delle Nazioni Unite, non solo nella comunicazione istituzionale rivolta ai cittadini e nella loro informazione e istruzione civica, ma in un complesso e variegato campo di interventi di cui vediamo solo in nuce negli attuali siti-vetrina in rete tutte le potenzialità.

Una Rai al centro del servizio pubblico nella società dell’informazione, ma non in posizione di esclusiva, priva di rendite di posizione, in situazione di concorrenza con altri soggetti pubblici nell’assolvimento delle finalità di informazione, educazione e crescita culturale dei cittadini. Un nuovo e composito servizio pubblico che recuperi quello spirito di rivalità e differenziazione positiva che aveva avuto la prima Rete 2 nei confronti della Rete 1 nella seconda metà degli anni Settanta con Massimo Fichera e che moltiplichi in un contesto peraltro del tutto inedito come quello che abbiamo sopradescritto - esperienze come quella di Channel Four al servizio dell’intero sistema-Paese. Va detto che la stessa BBC oggi, nonostante questo indubbio primato a cominciare dal suo sito web, non pretende peraltro di essere l’unico soggetto che risponda a criteri di servizio pubblico nell’universo multimediale.

Terzo equivoco da sgombrare. Allo stesso modo in quest’unico caso simmetricamente, Mediaset non deve detenere una posizione di monopolio nel mercato pubblicitario né Murdoch in quello della televisione a pagamento.

Non dobbiamo insomma arrivare ad un confortevole trio-polio dove ognuno è monopolista nel proprio mercato di riferimento e tende a comprimere investimenti e risorse per beneficiare di comode rendite di posizioni. Semmai vanno incoraggiate aggregazioni fra editori della carta stampata, ma anche fra emittenti locali in nuove syndication in grado di affrontare onerosi investimenti per assicurarsi nuove quote di mercato a fronte di una riduzione delle reti nazionali generaliste e di misure tese a impedire la dittatura della piattaforma di Murdoch nella distribuzione delle reti tematiche.

Questo significa che le frequenze analogiche lasciate da Rete Quattro si associno a quelle del canale musicale dell’Espresso e a quelle de La Sette per dar vita ad un autentico secondo polo commerciale trasmesso sia in tecnologia analogica sia in tecnologia digitale sulle reti terrestri nell’ultima fase prima dello switch off e all’origine insieme ad altri di una seconda piattaforma satellitare complementare all’offerta digitale terrestre (come potrebbe esserlo Freesat promossa da ITV e da altri soggetti nel Regno Unito). Una situazione diversa, ma con uno scenario per quanto riguarda il mercato pubblicitario per certi versi simile a quanto avvenuto nell’ultima fase prima dello switch off in Spagna e che comunque favorirebbe l’aumento delle tariffe pubblicitarie da un lato, la qualità dell’offerta e la riduzione dei costi di abbonamento all’offerta televisiva a pagamento per i consumatori, dall’altro.
Riassumendo tre sono i principi che a nostro avviso dovrebbero ispirare il legislatore:
· più mercato e più libertà e scelta per i consumatori,
· più servizio e più assistenza ai cittadini
· nessuna rendita di posizione

1. Uscire dalla visione simmetrica del duopolio.

Tuttavia ci pare sussista un vizio di fondo. Una visione simmetrica della regolamentazione della televisione pubblica e della televisione commerciale come se il loro destino fosse il medesimo e medesime fossero le finalità. Lo sviluppo del sistema misto in assenza di regole (a-regulation) con la formazione nei primi anni Novanta di un unico gruppo commerciale dominante, la nazionalizzazione nel 1986 della Terza Rete Rai che rinunciava definitivamente al concorso delle Regioni al rilancio della missione di servizio pubblico e delle sedi regionali all’ideazione e alla produzione dei programmi per controbilanciare l’acquisto di un terzo network commerciale Rete 4 da parte del gruppo Fininvest, accompagnato da una totale assenza di sviluppo di piattaforme ed offerte alternative via cavo e via satellite sino all’avvento del digitale, avevano disegnato un monstrum legislativo, la legge Mammì nel 1990, che si limitava a fotografare la situazione esistente, ovvero una sorta di pollaio televisivo pan-generalista, formato da tre reti pubbliche e tre reti private, simmetricamen te giustapposte le une accanto alle altre, come se andassero disciplinate sullo stesso piano, fatta eccezione per gli obblighi del contratto di servizio per la Rai ed i suoi vincoli alla raccolta pubblicitaria, disponendo del canone.

L’attenzione del legislatore e delle forze politiche, anziché concentrarsi sui nuovi obiettivi del servizio pubblico nel sistema misto, sullo sviluppo di nuovi canali tematici e nuovi servizi via cavo e via satellite (equiparati alle reti generaliste ignorando gli appelli generosi di Massimo Fichera e le lodevoli sperimentazioni compiute in Rai dal suo gruppo) si è rivolta prevalentemente a regolamentare il mercato pubblicitario dominato appunto dalle reti generaliste. L’avvio della pay tv nei primi anni Novanta, quando questo nuovo segmento aveva conosciuto significativi successi in Francia e nel Regno Unito passava inosservato: era consentita un’offerta di tre canali terrestri ma impedita l’offerta di un bouquet multicanale sulle nuove piattaforme.

Il deprecabile duopolio nel pollaio generalista si è tradotto in comportamenti del legislatore finalizzati esclusivamente a tutelarlo o a penalizzarlo a seconda dei casi e delle stagioni, senza preoccuparsi, almeno sino alla legge Maccanico approvata oltre due decenni dopo le prime sentenze della Corte Costituzionale, di distinguere – per farmi capire uno un’espressione forzata – il mercato del servizio pubblico dal mercato della televisione commerciale e dal nascente mercato della televisione a pagamento. La simmetria del duopolio insomma nascondeva l’asimmetria profonda delle finalità dei due principali gruppi televisivi italiani, concentrando la partita sul terreno della raccolta pubblicitaria e disincentivando la concessionaria di servizio pubblico ad esplorare nuove finalità pubbliche come se il canone risultasse qualche cosa residuale, destinato progressivamente ad esaurirsi.

Oggi assistiamo ad un’inversione di tendenza. Ma questo vizio di fondo non mi pare sia del tutto scomparso quando Gentiloni afferma di voler superare: “In primo luogo, il duopolio e la concentrazione degli ascolti e delle risorse nelle mani di due soggetti: una situazione che ha anche effetti politici di forte resistenza al cambiamento e all'Innovazione”. Ciò contiene verità sacrosante, ma il DDL Gentiloni mette sullo stesso piano ascolti e risorse raggiunti da soggetti pubblici e privati quasi a voler stabilire che la quota di ascolto della Rai rimasta attorno al 45% sia in qualche modo deplorevole, quando semmai risulta deplorevole il ritardo ventennale accusato nell’offerta multicanale che ha prodotto in Germania prima e oggi nel Regno Unito una frammentazione degli ascolti ma anche una riarticolazione dell’offerta e un più oculato presidio di queste nuove piattaforme e modalità di declinazione dell’offerta televisiva da parte dei servizi pubblici e contemporaneamente un rafforzamento della loro presenza sul territorio non solo in ambito regionale ma anche in ambito locale.

2. Rafforzare non amputare l’offerta di servizio pubblico.

Per questa ragione non ci piace la proposta del cosiddetto disarmo bilanciato: ovvero che una rete analogica sia di Rai sia di Mediaset venga smantellata entro 15 mesi dall’approvazione della nuova Legge cedendo o restituendo allo Stato entro il 2009 le frequenze analogiche di una delle loro tre reti[1].

Potremmo senza alcun dubbio accettare un disarmo sul mercato pubblicitario, ma crediamo che la Rai avrebbe bisogno fino al 2012 di una terza frequenza analogica per consolidare una nuova offerta televisiva educativa, informativa e culturale priva di pubblicità, come avvenuto quando al posto di TF1 il servizio pubblico francese ha potuto avviare la quinta rete educational (oggi France 5) in condominio con la rete culturale Arte. Mentre in Germania nascevano parallelamente una rete per bambini e una rete di documentari e di documentazione politico-parlamentare trasmesse sia in tecnologia analogica sia in digitale per poter raggiungere tutti gli abbonati al canone.

3. Incentivare l’aumento delle tariffe pubblicitarie, non il dimagrimento delle aziende

Per quanto riguarda il mercato pubblicitario non siamo ostili per principio alle misure previste ma crediamo che andranno introdotte gradualmente per assicurare un’autentica nuova dinamica del mercato, favorendo un aumento complessivo delle risorse, ovvero la fine di alcuni fenomeni deplorevoli come quelli praticati oggi come il dumping sulle tariffe delle inserzioni.

Il tetto del 45% stabilito sulla raccolta pubblicitaria (oggi Mediaset raccoglie il 66%, mentre TF1 il 50%, ITV il 49%, RTL 46% e Telecinco il 30%) e la diminuzione dell’affollamento pubblicitario (con le telepromozioni che verranno conteggiate nel tetto orario pubblicitario) devono a nostro parere non solo liberare 400-500 milioni di euro di pubblicità come prevedono le stime di Gentiloni. Di fronte a un minore affollamento, Mediaset, ma almeno in una fase di transizione anche la Rai, devono essere incentivate effettivamente ad applicare un aumento delle tariffe e recuperare in tal modo una parte dei volumi del loro fatturato pubblicitario.

4. La gestione delle frequenze. Estendere il sistema misto all’ambito regionale e locale.

Lo stesso giudizio - in parte positivo in parte condizionato dal vizio di fondo che abbiamo appena descritto - riguarda la nuova visione della transizione al digitale e della gestione delle frequenze contenuta nel DDL Gentiloni. Anche in questo caso riteniamo lodevole e serio lo sforzo teso al recuperare da parte dello stato e al riordino di un bene pubblico come quello rappresentato dalle frequenze che metterebbe fine ad un’anomalia tutta italiana. Ma non ci convincono i dispositivi antitrust individuati per il digitale terrestre a regime. Dopo lo switch off previsto nel dicembre 2012, la televisione digitale terrestre disporrà di dodici multiplex a frequenza singola SFN pari a 60 canali nazionali. Ogni operatore potrà disporre al massimo del 20% delle capacità trasmissive, pari a 12 canali. Rai e Mediaset secondo questo provvedimento simmetrico, dovranno cedere le capacità trasmissive eccedenti, a condizioni eque e trasparenti fissate dall’AGCOM.

Anche qui l’interrogativo di fondo rimane la simmetria fra servizio pubblico e operatori privati. Perché equiparare la Rai agli altri operatori?

5. La necessità di frequenze multiple MFN per irradiare in maniera più capillare il territorio.

Perché non consentire al servizio pubblico di disporre di frequenze digitali terrestri per assicurare una sua più capillare presenza in ambito non solo regionale, ma anche provinciale e locale. Perché assegnare i quattro multiplex a frequenza multipla MFN solo all’emittenza privata locale, quando negli altri grandi Paesi europei se non un intero multiplex per lo meno la metà della sua capacità viene assegnata in Francia per assicurare il distacco non solo in ambito regionale ma anche ad un secondo livello in ambito dipartimentale e locale di France 3, in Spagna per incrementare l’offerta delle televisioni pubbliche regionali autonome e persino quella delle televisioni pubbliche esistenti in ambito locale nelle grandi realtà delle nazioni catalana, basca, e galiziana, ma anche in Andalusia.

Non basta creare consorzi per favorire la razionalizzazione dell’emittenza regionale privata e la condivisione delle frequenze. Occorre una chiarificazione del ruolo delle Regioni e degli enti locali, ma soprattutto vanno definiti i nuovi confini multimediali della presenza del servizio pubblico in ambito regionale e locale che dovrebbe essere esplicitata nell’ambito del contratto regionale di servizio previsto dalla Legge Gasparri.

6. La separazione societaria fra operatore di rete e fornitore di contenuti.

Rispetto alla Legge 66 approvata nel 2001 che apriva la strada al trading delle frequenze, il legislatore, e comunque il documento Ovi Bosetti propone non solo la separazione delle funzioni ma anche la separazione proprietaria tra operatore di rete e fornitore di contenuti, portando a compimento il processo di smantellamento del vecchio modello del broadcaster verticalmente integrato. Ciò concentrerebbe il ruolo della Rai come fornitore di contenuti confermando nelle mani dell’azienda la responsabilità editoriale dei programmi trasmessi e dei nuovi servizi forniti e che dovrebbero essere fruibili attraverso tutte le piattaforme garantendo loro tendenzialmente un accesso universale.

Gentiloni vede con favore l'idea di creare una società delle reti di trasmissione televisiva dove confluiscano le infrastrutture dei vari operatori, ma dice no a qualunque operazione dirigistica e si dice perciò pronto a valutare progetti industriali che vengano dai player televisivi. In un articolo del disegno di legge sulla transizione al digitale vengono favorite le forme di aggregazione consortile per la gestione delle frequenze nella fase di transizione”. Il Ministro si è però detto “contrario a congegnare proposte che vengono dall'alto” e comunque ha sottolineato che per una valutazione dell'ipotesi più compiuta è necessario attendere qualcosa di concreto da parte degli operatori: “Bisogna valutare i progetti industriali - ha concluso - quando verranno avanti”.

Il documento di Ovi contiene proposte in linea con la filosofia delle Direttive sulle comunicazioni elettroniche dell’Unione Europea. Lo spacchettamento del modello del broadcaster verticalmente integrato non deve significare peraltro la fine del presidio pubblico degli impianti come avrebbe significato la vendita di Rai Way alla società americana qualora fosse stata consentita dal Governo nella legislatura precedente.Tornare al controllo pubblico delle frequenze significa distinguere le missioni pubbliche dell’operatore di rete dalle occasioni di business che possono essere sviluppate a partire dallo sfruttamento delle torri e degli impianti per nuove piattaforme.

7. Assicurare il principio della neutralità tecnologica e l’accesso del servizio pubblico su tutte le piattaforme

“Oltre ai temi classici del servizio pubblico, secondo il Ministro Gentiloni - occorre individuare temi nuovi, partendo dal chiarimento del rapporto tra free e pay, quindi sull'incrocio tra la gratuità e le platee generaliste, e il ruolo del servizio pubblico come uno dei fattori trainanti per orientare l'Innovazione tecnologica”. Il servizio pubblico radiotelevisivo dovrà essere tendenzialmente fruibile attraverso il maggior numero di modalità di trasmissione e di accesso che l’evoluzione tecnica metterà a disposizione dei cittadini. È bene impedire, infatti, che le trasformazioni legate alle nuove tecnologie digitali determinino disparità (socio-culturali o di altra natura) nelle reali possibilità di fruizione dei contenuti da parte dei cittadini.

Questo approccio è oggetto di ulteriori approfondimenti da parte di Giancarlo Bosetti e Alessandro Ovi: “Privilegiare il nucleo effettivo della funzione di servizio pubblico, rappresentato dalla fornitura di contenuti specifici, potrebbe suggerire la scelta di separare, non solo in termini di società ma anche in termini di proprietà, la società che gestisce torri e impianti di distribuzione dalla società che produce e/o offre i contenuti. Il modello dell’operatore verticalmente integrato (contenuti-rete) sembra essere sempre più divergente rispetto a quello del produttore di contenuti che diffonde i propri contenuti su tutte le piattaforme. È necessario dunque creare le condizioni in base alle quali le reti ed i contenuti siano separati dal punto di vista della proprietà e rispondano a logiche industriali diverse: la massimizzazione della capacità trasmissiva per gli operatori di rete e la diffusione multipiattaforma per i produttori di contenuti”.

Questa ipotesi rende di nuovo di attualità l’ipotesi di un’unica società proprietaria delle torri e degli impianti di trasmissione e - connessa ad essa - l’ipotesi di uno scorporo della rete di telefonia fissa dal gruppo Telecom Italia.

8. Un’unica società per la gestione degli impianti per tanti operatori?

Nel Regno Unito si distingue la proprietà degli impianti e dei siti sui quali sono edificati che rimane gelosamente in un unico soggetto posto sotto il controllo del Ministero delle Difesa (così come pubblica rimane la gestione e pianificazione delle frequenze) dallo sfruttamento della rete stessa da parte di più operatori in concorrenza tra di loro. Un’unica rete, tanti fornitori di servizi in concorrenza tra di loro a pari condizioni di accesso e sfruttamento degli impianti.

Il modello britannico era stato caldeggiato in Italia da Confindustria favorevole alla costruzione di un’unica rete UMTS e che avrebbe esercitato senza dubbio una razionalizzazione dei siti e un migliore impatto sul territorio a tutela della salute dei cittadini contro gli effetti nocivi derivanti dall’irradiazione di onde elettromagnetiche.

La Rai negli anni Ottanta aveva respinto il tentativo di cedere le proprie torri al gestore delle telecomunicazioni, memore degli interessi divergenti che ne sarebbero potuti derivare. Respingendo l’ipotesi di una cessione degli impianti Rai alla Stet caldeggiata allora dal Presidente dell’IRI e dallo stesso Alessandro Ovi, e consapevoli del ritardo tecnologico accumulato per le dissennate decisioni prese contro lo sviluppo delle reti via cavo nel decennio precedente, taluni si erano dichiarati favorevoli allo sviluppo di un Agenzia nazionale per lo Sviluppo delle Reti e delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (poi divenuto una proposta di legge nel 1992). Una tale Agenzia nazionale avrebbe dovuto pianificare lo sviluppo delle nuove piattaforme integrandolo con la nascita di una Società Italiana per la Telediffusione che avrebbe dovuto rimanere controllata in maggioranza dalla Rai ma che avrebbe potuto avere l’apporto di privati per lo sviluppo di nuove attività di profitto. In ogni caso non si prevedeva la vendita a privati di un asset strategico come gli impianti della Rai - e quindi a quella di Rai Way - a soggetti privati date le delicate missioni di servizio pubblico e gli obblighi di accesso universale che ne derivano.

A 15-20 anni di distanza sentiamo ancora davvero la mancanza di una cabina di regia pubblica: nello sviluppo del comparto multimediale. E’ mancata in questo caso, a contrario di quanto avvenuto negli anni Trenta, una sorta di Iri della multimedialità in grado di traghettare le punte tecnologiche del Paese in questo nuovo decisivo comparto. L’idea di una società unica rimane una prospettiva ancora percorribile? Che reale interesse vi può essere al possesso della rete quanto tanto più se essa è unica, dovrà assicurare l’accesso a terzi senza infrangere le rigorose regole comunitarie in materia di tutela della concorrenza e contemporaneamente garantire l’accesso di tutti i cittadini senza discriminazioni ad un’offerta di servizio a carattere universale con notevoli costi per assicurare l’illuminazione capillare dei segnali su di essa veicolati? Non siamo proprio sicuri che quest’idea sia davvero percorribile ma in ogni caso - laddove essa fosse esplorata nel concepire in particolare la configurazione delle reti digitali terrestri - dovrebbe naturalmente essere adattata all’interno del nuovo comparto multimediale e multipiattaforma.

In ogni caso va comunque detto che qualora fosse percorribile la strada di una grande società degli impianti, oltre a garantire l’accesso ad una pluralità di soggetti anche terzi in concorrenza fra loro senza discriminazioni e a condizioni eque e trasparenti, anche in questo caso essa dovrebbe favorire non solo un processo di razionalizzazione, ma come già detto per le frequenze, un’estensione del carattere misto del comparto multimediale.Vanno dunque garantiti i servizi veicolati sulle reti anche in ambito regionale e locale, introducendo obblighi di must carry e di copertura dei segnali a tutti i cittadini seguendo la medesima filosofia con la quale sono state costruite storicamente le reti radiofoniche e televisive sino a raggiungere tutto il territorio nazionale. Una filosofia improntata all’erogazione di un servizio con un costo infrastrutturale per l’intera collettività che non può auto-finanziarsi da solo sul mercato se non attraverso uno sviluppo selettivo e discriminatorio verso le aree non appetibili perché scarsamente generatrici di traffico e conseguentemente di flussi finanziari.

(Bruno Somalvico)