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2004 - Televisione e convergenza: domani o dopodomani ?
di Bruno Somalvico

 

TELEVISIONE E CONVERGENZA: DOMANI O DOPODOMANI ?

di Bruno Somalvico


Nemmeno in America la tv interattiva, la convergenza tra media televisivo e computer sono decollate. Per ben valutare la situazione nel nostro paese bisogna in ogni caso avere una visione di sistema per non rimanere prigionieri di questioni di lana caprina. Occorre in particolare affrontare due problemi con molti punti comuni ma che per comodità voglio tenere distinti: quello degli effetti della convergenza, e quello dei tempi della transizione della televisione verso la tecnica digitale.

Oggi viviamo il tempo della globalizzazione. Internet ne è il volto. Ma la tv resta al centro del gioco, al giro di boa di una difficile transizione verso la società dell’informazione. Innanzitutto diciamo chiaramente che sono falliti alcuni matrimoni fra internet e la tv. ma questo non ha impedito - anzi per certi versi ha rafforzato - i fenomeni di concentrazione nell’editoria, dove, al contrario, sono proseguiti i processi di integrazione orizzontale fra carta stampata, radio, televisione, cinema ed editoria elettronica

Oggi un grande editore diventa "molti-mediale" perché può distribuire i suoi prodotti su tutti questi strumenti di comunicazione utilizzando un più ampio numero di piattaforme distributive: l’edicola, le librerie e i negozi specializzati nella vendita e nell’affitto di prodotti home video e audio, le sale cinematografiche, la radio, la televisione in chiaro, la televisione a pagamento, i siti web e persino i videotelefonini e i nuovi terminali multimediali mobili. Esiste dunque un’effettiva convergenza tecnologica delle infrastrutture di rete, si possono ricevere segnali radiotelevisivi sulle reti bidirezionali di telecomunicazione e viceversa trasmettere servizi telematici sulle reti unidirezionali di radiodiffusione circolare. Ma ciò non significa ancora una convergenza di prodotti tv e telecomunicazioni, se non su segmenti di nicchia. Di regola si guarda la tv in salotto e non sul computer da tavolo, nè, almeno per ora, su un orologio da polso e seri dubbi sussistono sull’impatto della televisione sui nuovi videofonini.

Non esiste dunque, almeno oggi, una convergenza delle imprese nè delle modalità d’uso da parte degli utenti. Quindici anni fa Robert Maxwell parlava di dieci sorelle della comunicazione ma non pensava ancora alla convergenza. Oggi, dopo la Caporetto finanziaria della New Economy e di quegli imprenditori che hanno puntato tutto sulla convergenza delle imprese editoriali con quelle delle telecomunicazioni, tutti hanno dovuto rassegnarsi: gli interessi degli uni sono divergenti da quelli degli altri: il mestiere di acquisire reti, di vendere o affittare capacità fisiche di trasmissione, e di generare traffico su tali infrastrutture è diverso da quello di ideare, produrre, distribuire nelle migliori condizioni e con i più svariati formati, e contemporaneamente tutelare prodotti tipici dell’ingegno come i prodotti dell’ingegno.

Un grande editore come Murdoch ne è uscito quasi indenne perché negli anni si è diversificato sul fronte dei contenuti comprando i giornali, non le industrie produttrici delle rotative; promovendo emittenti televisive finanziate dalla pubblicità e dagli abbonamenti senza acquisirne gli impianti di trasmissione; acquistando società di produzione e di distribuzione cinematografica e televisiva, e diversificandosi nella televisione tematica e solo in minima misura su Internet e comunque quasi esclusivamente come editore elettronico di siti web. Insomma Murdoch è stato un grande content provider, il primo fornitore di contenuti su scala globale, rinunciando ad essere network provider, ossia anche proprietario o operatore di rete.

Per quanto riguarda il secondo problema, relativo alla difficile transizione della televisione dall’universo dei segnali analogici a quello digitale e interattivo, si tratta di un processo ineluttabile, ma non lineare e facilmente quantificabile in termini temporali.

L’Italia è comunque giudicato il Paese europeo con il mercato televisivo più promettente per la diffusione digitale terrestre: in effetti la televisione terrestre continua ad interessare circa tre famiglie italiane su quattro. La migrazione al digitale, "inevitabile" e "allettante", è anche piena di incognite. Cinque variabili ne condizionano il processo in senso positivo o negativo. Il grado di occupazione dello spettro radioelettrico è certo il primo fattore alla base della difficile transizione italiana. Esso rende tecnicamente complesso il reperimento delle risorse trasmissive per l’avvio di nuovi programmi a fianco di quelli tradizionali con serie ripercussioni sullo sviluppo del nuovo mercato televisivo digitale terrestre. L’assenza di frequenze libere ha costretto da un lato i cosiddetti incumbent, ossia Rai, Mediaset ed anche Telecom Italia (proprietaria de La7), ad acquisire nuove frequenze cedute dalle tv locali; dall’altro essa ha impedito almeno in questa prima fase l’ingresso di nuovi soggetti con il rischio di estendere l’attuale duopolio anche al digitale terrestre.

In secondo luogo incidono i diversi livelli di sviluppo delle altre piattaforme tecnologiche per la diffusione e distribuzione di programmi televisivi. Le reti via satellite in Italia diffondono ricche offerte a pagamento molto attrattive, mentre sono ancora irrilevanti le reti via cavo a banda larga, che in Paesi come la Germania e la Svizzera sono invece diventate progressivamente le reti primarie per la televisione assicurandone l’accesso generalizzato e rendendo quindi meno complessa la transizione sulle reti terrestri.

Va poi naturalmente considerata la struttura generale dell’offerta televisiva e in particolare il numero in Italia molto elevato delle emittenti televisive analogiche ricevibili con le antenne radiali terrestri. Essa costituisce un terzo indice di appetibilità per il consumatore italiano potenzialmente molto meno attratto verso la televisione digitale terrestre rispetto a paesi come la Germania, il Regno Unito e la Francia che continuano ad offrire sulle reti terrestri solo 3, 5 o al massimo 6 canali televisivi analogici con il vantaggio di poter meglio utilizzare lo spettro delle frequenze disponibili nella fase di transizione e di coesistenza fra segnali analogici e segnali digitali o di doppia illuminazione (il cosiddetto simulcast). In quarto luogo incidono le regole del gioco e le politiche adottate dai governi su scala nazionale o, come in Germania, dai singoli Laender. Un fattore critico di successo sono in particolare le misure orientate al servizio di pubblica utilità sociale e quelle tese a sviluppare la concorrenza nel mercato evitando il consolidamento delle posizioni dominanti. Sotto questo profilo non è irrilevante il ruolo del servizio pubblico e i fondi di cui potrebbe disporre grazie ad eventuali incrementi del canone e ad altri fondi pubblici come avvenuto in Germania e nel Regno Unito per finanziare i nuovi programmi. Sembrano risultare, invece, più incerti altri modelli di finanziamento derivanti da prospettive di forte crescita della pubblicità - un mercato ormai maturo e saturo - o degli abbonamenti a servizi a pagamento; non va dimenticato, al riguardo, che sono fallite le piattaforme digitali terrestri a pagamento sia nel Regno Unito sia in Spagna a causa anche della concorrenza su questo terreno delle ben più attrattive piattaforme via satellite - .

Last but not least, sono decisivi i tempi di reazione e le capacità di spesa del consumatore stimati mediamente in dieci anni per assicurare una completa adozione dei nuovi apparati. Se verrà reiterato anche nei prossimi anni l’attuale contributo all’acquisto dei decodificatori digitali terrestri pari a 150 euro stabilito nella legge finanziaria per il 2004, possiamo ipotizzare di ridurre a 8 gli anni necessari. In ogni caso, anche qualora venisse assicurata progressivamente un’offerta più attraente rispetto a quella avviata dal 1 gennaio 2004, è difficile prevedere uno spegnimento definitivo delle trasmissioni analogiche prima del 2010, e del tutto impensabile che esso si possa effettuare entro il 31 dicembre 2006 come previsto dalla Legge italiana approvata nel 2001 dal governo di centro-sinistra e confermata dalla Legge Gasparri. Se così non fosse Rete Quattro non sarebbe preoccupata dalla prospettiva di dover andare sul satellite dopo il 30 aprile in base al decreto legge approvato dal governo a Capodanno. A Rete Quattro basterebbe una proroga per i prossimi due anni, ma tutti sanno che il 2006 non può più essere visto come un terminus ad quem invalicabile e tale da costringere tutte le emittenti ad abbandonare le trasmissioni analogiche, ma come un terminus a quo, ovvero come la data effettiva di avvio della televisione digitale terrestre e forse anche dei nuovi servizi interattivi tanto declamati nei convegni, ma sinora ...inattivi.