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RAPPORTO FINALE 2010


La trasformazione della società, e della radiodiffusione di servizio pubblico

di Philip Schlesinger e Michele Sorice

Questo elaborato trae origine dal lavoro preliminare svolto dal ‘Gruppo di Torino’, promosso dall’Associazione Infocivica. I partecipanti a questo gruppo sono studiosi provenienti da istituzioni accademiche di nove Paesi Europei. Il fine principale del Gruppo di Torino è quello di promuovere il dibattito e l’interesse per i media di servizio pubblico e per la loro collocazione futura in seno alle società europee.

1 - Riteniamo che vi sia una reale possibilità di influire sui modi e sui termini del dibattito e che sussista, senza ombra di dubbio, un’opportunità per creare un piccolo spazio di confronto e di scambio fra gli esperti, e questo nell’interesse pubblico e in un’ottica europea.

E’ evidentemente giunto il momento di migrare dalla nozione di “public service broadcasting”, ossia di «radiodiffusione di servizio pubblico» a quella di “public service media”, ossia di “media di servizio pubblico” o, per essere ancora più precisi, di “public service cross media », cioè “strumenti di comunicazione cross-mediali di servizio pubblico”. In effetti questa riflessione riguardo al servizio pubblico va inserita nel contesto più generale che interessa il mondo delle comunicazioni.

A partire dal momento in cui spostiamo la focalizzazione della nostra attenzione dalla problematica dei media a quella delle comunicazioni e a quella delle relazioni fra i contenuti culturali veicolati attraverso i media e gli strumenti della loro distribuzione, ci imbattiamo ineluttabilmente nella questione delle infrastrutture.

Numerosi fra gli esperti che hanno contribuito alla nostra discussione hanno sottolineato l'esistenza di un “digitale divide”, ovvero d'une frattura digitale. La sua rilevanza varia a secondo dei Paesi europei e le cause che l’hanno originata sono complesse.

Per coloro che sono interessati al tema del servizio pubblico e delle sue relazioni con le infrastrutture e con le attrezzature acquisite dalla gente per rafforzare il principio di cittadinanza, la questione dell’accesso alla comunicazione è certamente fondamentale.

Un terzo della popolazione del Regno-Unito non possiede ancora un accesso a reti a banda larga; la situazione è simile anche in Italia e in numerosi Paesi europei, fatte salve alcune rare eccezioni. Dobbiamo interrogarci non solo sulle cause di questa esclusione ma anche sulle ragioni dell'auto-esclusione, il che richiede da parte nostra una analisi della dinamica dei comportamenti dei nuclei familiari così come delle condizioni in cui viene loro assicurata l'offerta.

L’investimento nelle infrastrutture e il loro accesso senza discriminazioni rimangono fondamentali per consentire a tutti di fare le proprie scelte - e lo saranno in misura sempre più crescente per quanto attiene all’uso di questi servizi e alla loro capacità di esercitare influenza sulla collettività.

Anche per questa ragione forse sarebbe meglio parlare di “public service media and communications”, ovvero di «media e comunicazione di servizio pubblico» o ancora di riprogettazione dei media e della comunicazione nel “public interest”, ovvero nell’interesse della collettività.

A questo punto dobbiamo prendere due temi in considerazione:

- in primo luogo, ci proponiamo di offrire alcuni spunti di riflessione sul contesto europeo che ci appare molto lontano da una condizione di stabilità;

- in seconda battuta desideriamo presentare quelle che – in base anche ad una prima lettura dei contributi dei nostri colleghi - ci sembrano essere i temi chiave prioritari che è opportuno vengano affrontati;

2 - Sembra che sussista al nostro interno un’ampia maggioranza che ritiene che la radiodiffusione televisiva tradizionale basata sul palinsesto lineare non costituisca più la sola proposta né l'unica fonte per costruire un’identità collettiva. I ricevitori mobili, i servizi a richiesta, l'esplosione delle possibilità di scelta digitali hanno portato ad una frammentazione. E non solo. Nel Regno-Unito le reti televisive sono rimaste il medium dominante in occasione di appuntamenti politici quali le elezioni generali del maggio 2010 e lo stesso fenomeno era stato osservato su scala continentale in occasione delle elezioni europee del 2009. La televisione rimane di gran lunga, in questo nuovo contesto, il medium più diffuso per informarsi.

Occorre dunque avere il senso della misura affrontando la rivoluzione digitale, il suo ritmo e impatto.

Dobbiamo peraltro constatare – opinione largamente condivisa dai nostri colleghi - che il servizio pubblico è un po’ ovunque sulla difensiva. Ricorrere alla metafora del campo di battaglia ideologico è in questo caso del tutto appropriato per la nostra discussione.

Nel 2008, il modello capitalistico neoliberale è entrato in crisi. Tre anni dopo, all’inizio del 2011, appare chiaro che non è stata sinora avviata nessuna riforma fondamentale delle strutture di finanziamento. La politica, in Europa, rimane determinata nei suoi schemi fondamentali da considerazioni di matrice neoliberale – libertà d'intrapresa e rischi coperti da un quadro istituzionale di sostegno da parte dello Stato che rafforza ampiamente i diritti fondati sulla proprietà privata, il libero mercato e il libero commercio .

In effetti, si osservano un po’ ovunque in Europa politiche di austerità in cui i tagli nei servizi pubblici vanno pari passo con un aumento rampante dei differenziali di reddito. La radiodiffusione di servizio pubblico rimane collocata – qualunque siano i suoi assetti costituzionali- nell’ambito del settore pubblico. Deve fare i conti con il disimpegno del ruolo dello Stato e del pubblico dominio e con le restrizioni e i tagli che ne derivano.

E’ anche vero che il progetto europeo è ormai in crisi.

Vi sono visioni diverse su come affrontare la crisi finanziaria – e sulle significative deroghe che si sono potute verificare in materia di solidarietà in occasione dell’allargamento dell’Unione Europea, e non solo, per quanto riguarda il problema dell'Euro.

Oggigiorno possiamo solo limitarci a constatare il risorgere dei nazionalismi cui si accompagnano manifestazioni di xenofobia: pensiamo all’attuale dibattito sui respingimenti dei Rom, alle ricadute in termini elettorali delle paure sul ruolo dell'Islam in Europa, al revisionismo storiografico emerso con la fine della guerra fredda, ai sostenitori delle teorie negazioniste dell’Olocausto.

L'esistenza di differenze culturali che attraversano il nostro continente pone sfide profonde, costituisce un grande banco di prova per coloro che continuano a credere in una politica civica, civile e democratica. Non esiste una sola modalità di narrazione di cosa significhi “essere europeo”; non vi è nulla di meno sicuro e condiviso che postulare o rendere possibile l’esistenza di un servizio pubblico europeo.

Detto questo, come già rilevato nel nostro incontro precedente “La possibilità di cosmopolitismo offerta dall’europeizzazione, seppur modesta in quanto limitata ai confini geografici dell’euro-cosmo, è pur sempre un importante contrappeso potenziale del lato più oscuro e antidemocratico del nazionalismo […].

Quella del multiculturalismo è una scommessa che i nostri Stati affrontano potendo contare su mezzi e strumenti tra loro molto eterogenei, in un’Unione Europea che è ancor oggi poco più che la sommatoria degli Stati che la compongono” .

La questione di una cultura comune, del ruolo delle credenze all’interno della sfera politica e pubblica è stato certo un problema emerso durante la visita di Papa Benedetto XVI in Regno Unito nell’agosto 2010 - e rappresenta veramente un interrogativo per l’Europa nel suo insieme.

L’idea che la comunicazione condivisa sia una condizione preliminare per la formazione di una democrazia europea ha costituito il fulcro di più di un dibattito, sia in ambito politico che accademico, e del resto molti tentativi sono stati compiuti per dare, sia pur artificialmente, una realizzazione concreta a questo aspetto della “sfera pubblica”: dalle coproduzioni televisive finanziate da Iniziative Europee come il Programma Media sino ai più recenti sviluppi della cosiddetta Politica della Comunicazione da parte della Commissione Europea mirata a riequilibrare il «deficit democratico».

Sulla falsariga di questi sviluppi si collocano l’aspirazione di creare uno “spazio europeo dell’informazione”, concepita oltre due decenni fa, e il tentativo, che ne rappresenta l’evoluzione, di istituire una “società della conoscenza” in linea con l’agenda di Lisbona. Elementi propulsori di questo processo sono stati la competitività economica globale e le innovazioni tecnologiche, non ultime quelle registrate nella cosiddetta economia digitale.

Allo stesso tempo, il contesto dell'Unione Europea deve fare i conti con le incertezze legate alla crescita di uno spazio culturale europeo, che dal 2000 in poi hanno spinto la Commissione europea ad attribuire un’importanza crescente ai suoi programmi culturali.

Per quanto possa essere legittimo interpretare questi sviluppi come trend europeizzanti, resta il fatto che la vera forza trainante in grado di far nascere uno spazio di comunicazione comune (e quindi delle condizioni che potrebbero creare una televisione pubblica realmente transnazionale) è la creazione di uno spazio politico condiviso. E questa creazione, al momento, è in una fase di stallo.

Il rapporto tra la televisione e il suo pubblico eterogeneo – soprattutto in un’epoca in cui la rivoluzione digitale è in pieno sviluppo e rende sempre più complesse le modalità di distribuzione dei contenuti – apre il dibattito sull’importanza da attribuire al consumismo in questo presunto processo di costruzione dell’Europa. Quali contenuti meritano almeno in teoria di essere ritenuti importanti e come tali resi di pubblica fruizione comune?

L’informazione, spesso citata a questo proposito, trova in realtà il formato di maggior successo nelle sue varie versioni nazionali. La Uefa Champions League e l’Eurovisione producono audience transnazionali su larga scala accomunate dall’interesse per uno stesso evento, eppure in occasione di queste competizioni culturali la popolazione europea manifesta ancor oggi divisioni e sensi di appartenenza tribali (che, per inciso, sono molto meno peggiori della guerra).

D’altra parte, i dati più recenti non sembrano indicare l’esistenza nell’Unione Europea di una forte domanda cross-nazionale di programmi di altri Paesi. Ciò non significa, naturalmente, che a livello europeo non vi sia una circolazione di programmi e di format, questi ultimi forse ancora più importanti come creatori di una certa uniformità culturale attraverso quiz televisivi, talent show e reality. Resta però il fatto che le modalità di fruizione dei programmi sembrano tuttora prevalentemente ancorate ai contesti nazionali, sia dal punto di vista dell’offerta che dello stile comunicativo. Lo spazio europeo rimane linguisticamente e culturalmente diviso, indipendentemente dalla crescita dell’inglese come lingua franca.
La creazione della cittadinanza e l’integrazione sociale sono frutto di aspirazioni create dall’alto. Il che non implica necessariamente che siano deleterie o sbagliate. Sono anzi aspirazioni condivisibili da molti cittadini, nonostante le indagini dell’Eurobarometro in tutti gli Stati membri abbiano dimostrato quanto sia variabile nel tempo il sentimento di appartenenza europea dei cittadini.

La creazione di un servizio televisivo di dimensione europea potrebbe avere innumerevoli risvolti dal punto di vista formale. Obiettivi quali la costruzione della cittadinanza e la ricerca della solidarietà sociale ci pongono di fronte a questioni di carattere non solo normativo, ma anche pratico, legate in gran parte alla visione dell’Europa che si sceglie di sposare, e pertanto al dualismo tra uno Stato assistenziale e uno basato sulle dinamiche di mercato, tra nazione e federazione, tra guida del governo elitaria e leadership democratica.

Un’altra questione sensibile è quella dei limiti da imporre alla nuova Europa: chi sarà considerato europeo e chi sarà invece escluso? Da chi dovranno proteggerci le frontiere, per quale motivo e sulla base di quali criteri? Sarà la Realpolitik a ispirare le decisioni in materia di adesione, affinità culturale e religione, o piuttosto una combinazione di queste ultime, variabile in base alle circostanze? E ancora, a quali persone sarà concesso, una volta divenute residenti nell’Unione Europea, di essere considerate cittadini europei indipendentemente dal colore della pelle, dall’appartenenza religiosa e dalla cultura?

3 - Abbiamo considerato le relazioni fra i servizi pubblici nell’era dei cosiddetti social media ed in particolare quel che dovrebbe essere la missione del servizio pubblico per consentire al pubblico di capire la complessità sociale – e forse - per contribuire a progettare un nuovo modello di coesione sociale.

Ci sono due tendenze che dobbiamo prendere in considerazione:

a) la profonde trasformazione della sfera pubblica in uno spazio pubblico sempre più frammentato e soggetto a complesse forme di mediazione;

b) La trasformazione sempre più ampia delle società europee e delle platee dei suoi vari media.

La trasformazione delle dinamiche di ascolto (audience) è strettamente legata alla commercializzazione e alla rilevanza del marketing della produzione culturale. Ciò appare evidente, persino nella comunicazione politica, dove un «pubblico emotivo» ha sostituito quello più tradizionale della vecchia televisione.

Il modello classico di servizio pubblico ha avuto il grande vantaggio di beneficiare di un ampio impegno politico, derivante da una programmazione fondata su una partecipazione del pubblico secondo criteri di natura politica . Il primo vantaggio deriva dal fatto che «tali programmi dispongono di uno strumento attraverso il quale il pubblico può disporre di una rappresentazione diretta nei mass media che diventa manifestazione tangibile di una sfera pubblica mediatizzata » .

Attraverso la televisione e la radio – e più tardi attraverso Internet - ogni membro del pubblico può utilizzare i media per rivolgersi ai suoi pari e risulta in grado di esporre i propri argomenti politici in base ad un interesse condiviso nel processo democratico.

Il secondo vantaggio proviene dalle opportunità di accesso pubblico offerte a tutti coloro che, disponendo di influenza politica, in quanto membri della collettività, beneficiano dell’opportunità di sottomettere ad un esame minuzioso e a domande precise i decisori politici e gli esponenti dell'élite politica .

Un terzo vantaggio consiste nel fatto che una tale programmazione potrebbe incitare quella che Ryan Mac Nair e altri chiamano la «mobilitazione dei pubblici politici» - ossia la possibilità che gli spettatori e i partecipanti «siano tenuti in considerazione, almeno quanto alle loro riflessioni, nelle conclusioni che si traggono dal dibattito» .

In questo modo «allo stadio in cui i media compiono una valutazione normativa del loro specifico contributo al servizio pubblico, conferendo al pubblico un ruolo partecipativo nella televisione di argomento politico, si rende effettiva la dimensione della sfera pubblica nell’ambito dei media (…) e ciò può contribuire potenzialmente a fornire una soluzione alla questione del disimpegno della collettività nei confronti della politica tradizionale» .

Se i palinsesti lineari dei vecchi broadcaster offrono alcuni vantaggi e, sino ad un certo punto, anche alcuni dispositivi critici per l’interpretazione dei programmi, le reti partecipative («social network»), e persino numerose altre forme di consumo mediatico (quali Twitter, Facebook e YouTube) creano nuovi soggetti frammentati, che qualche volta possono essere coinvolti in un impegno sociale e politico.

Osservazioni di carattere diverso sorgono verso la IPTV (televisione con protocolli internet) che costituisce un importante strumento dotato di un forte potenziale di interattività ed è plausibilmente in grado di favorire la nascita di reti di utenti (consumers’ networks). La crescita della IPTV, i cui servizi sono veicolati secondo un'architettura e modalità reticolari (networking) che utilizzano Protocolli Internet, è strettamente connessa alla disponibilità di infrastrutture di reti a banda larga.

In molti paesi prevalgono ancora connessioni ad Internet lente, il che innegabilmente costituisce un ostacolo allo sviluppo della IPTV favorendo il permanere di un’assenza della cultura cosiddetta «open source». In altre parole, il potenziale della televisione con protocolli Internet IPTV per fruizioni di servizio pubblico potrà crescere solo proporzionalmente al più ampio accesso veloce ad Internet.

La radiodiffusione di servizio pubblico (public service broadcasting) è in grado oggi, di trasformarsi in media di servizio pubblico (public service media)? L'accesso alle nuove forme di comunicazione può trasformare la missione di servizio pubblico? O ancora: la disintermediazione è destinata nel tempo a costituire la nuova logica prevalente del servizio pubblico? Ciò che intendiamo con questo è sapere se possiamo applicare queste nuove relazioni fondate sulla connettività anche al rapporto fra gli attori politici e i cittadini nel loro insieme.

Possiamo by-passare i partiti e le istituzioni formali e attuare nuove pratiche politiche in cui risultino centrali i media? Per essere più chiari, è come se media relazionali come Twitter e Facebook si fossero dotati di finalità politiche e YouTube diventasse una sorta di deposito di determinati momenti della vita politica, tragici o comici che siano, comunque significativi. Anche certi blog possono fungere da vettori di un peso non-istituzionale e potrebbero spingere la classe politica e giornalistica a spiccare il volo.

Tali mutamenti d’uso, peraltro rimangono ancora lontani dall’essere al centro dei processi politici ed è ancora difficile giudicare se questi nuovi utilizzi dei media e il loro impatto contribuiranno a ridefinire i rapporti politici o se nella maggior parte dei casi siano piuttosto principalmente destinati a rivolgersi segmenti particolari del pubblico

Vorremmo mettervi in guardia nei confronti di chi nutra un punto di vista eccessivamente entusiasta circa le possibilità offerte dalle tecnologie dei nuovi media per la crescita della partecipazione della collettività. Possiamo affermare che il fenomeno del social networking o il consumo culturale attraverso la Rete rappresentino di per sé sempre una forma di partecipazione per la semplice ragione che si basano su sequenze prive di mediazioni, ossia su modalità di disintermediazione?

4 - Quando d’abitudine discutiamo sul servizio pubblico, facciamo generalmente riferimento ai media radiodiffusi e alle possibilità che essi offrono al pubblico in termini di accesso alle produzioni culturali. Molti studiosi sono implicitamente segnati dalla formula reithiana per quanto attiene a quello che dovrebbe soddisfare la radiodiffusione (ovvero «informare, educare e divertire»). Alcuni fanno di questa concezione un’autentica professione di fede, altri invece la respingono in nome della propria inclinazione alla deificazione del mercato. Entrambe le posizioni, in fin dei conti, si limitano ad offrire prospettive dogmatiche.

Naturalmente il servizio pubblico deve ancora informare e divertire e, persino, in taluni casi, educare. L’obiettivo primario oggi dovrebbe essere quello di offrire uno spazio democratico alle società civili europee. Nello stesso tempo il servizio pubblico deve diventare veicolo per la distribuzione di un public service content, ovvero di un contenuto al servizio della collettività.

Ma cosa vogliamo dire quando parliamo di «partecipazione» e di «accesso»? Vi è una differenza fra «accesso» e «partecipazione» . Esiste altresì un livello intermedio, quello dell'interazione.

Possiamo declinare il termine «accesso» in tre modi:

a) Accesso 1.0, nel quale l'utilizzo del medium costituisce, per il servizio pubblico, un esempio tipico; per riprendere le parole di Jan Servaes «Può essere definito come l'insieme delle opportunità per permettere al pubblico di scegliere una vasta e pertinente gamma di programmi e per avere dispositivi di ritorno per trasmettere le proprie reazioni e richieste agli organizzatori della produzione». Ciò risulta in linea, ad esempio, con le raccomandazioni contenute nel Green Paper del Governo britannico del 2005 dedicato alla BBC e al servizio pubblico. Malgrado i propri limiti, la BBC rimane globalmente uno dei più importanti esempi di un accesso aperto alla radio e alla televisione e ai media.

b) Accesso 1.1 può essere definito - nella prospettiva di una comunità dei media - come l’insieme de «i processi che consentono agli utenti di accedere secondo modalità relativamente aperte ed inedite ai mass-média» , in linea con la logica “non-mainstream”, ovvero di assenza di un flusso dominante e di prevalenza di strumenti di comunicazione ad esso alternativi.

c) Accesso 2.0: tale modello si fonda sulla possibilità di disporre di contenuti pubblica e/o radiotrasmessi e, nel medesimo tempo, di disporre dei mezzi necessari per ricevere contenuti e rispedire un feed-back . Questo modello riguarda alcune esperienze televisive «quasi partecipative» (quali ad esempio «Current TV»).

L'accesso assicurato secondo tutte e tre queste definizioni non costituisce in ogni caso «interazione». Una semplice definizione d interazione ci guida piuttosto verso la nozione tecnologica (ma anche politica) di «pull technologies» (in cui le richieste di dati, di informazioni, e – molto spesso - di prodotti audiovisivi provengono direttamente dagli utenti).

Ma questo nuovo modello di tecnologie «pull» è davvero destinato a cancellare la forza di tecnologie «push» prevalenti nel mondo della radiodiffusione tradizionale?

Siamo realmente in grado di controllare i «beni simbolici» (come li definiva John B. Thompson) distribuiti attraverso i media o abbiamo solo l'illusione di poterli controllare? «Il nostro controllo – come ben stabilito da David Robeky - può sembrare assoluto, ma il dominio di questo controllo è definito altrove. Siamo sicuramente impegnati come parte attiva ma non disponiamo tuttavia del potere di filtrare il linguaggio dell'interazione che rimane aggregato e incluso nell'interfaccia».

Alcuni studiosi hanno contrapposto «interaction», ossia «interazione» e «involvement» cioè «coinvolgimento» . Quello di «involvement” è uno dei concetti comunemente utilizzati negli studi sulla ricezione e nelle analisi dei processi di fruizione e di «consumo». Pone in particolare l’accento sull’aspetto affettivo e relazionale nei processi di ricezione e si trova connesso alla completa realizzazione di un potere bilanciato. Non esiste una vera e propria co-decisione nell'interazione, mentre il processo di coinvolgimento (“involvement”), al contrario, apre la strada al concetto (e alla pratica) di una comunità relazionale.

Al contrario, la partecipazione può essere presa in considerazione secondo tre criteri:
a) partecipazione ai contenuti prodotti;
b) partecipazione nelle dinamiche organizative di produzione dei contenuti;
c) partecipazione alle policies dell’organizzazione produttrice di tecnologie, il che significa il possesso di competenze tecniche e politiche per essere in grado di co-decidere in materia di utilizzo di questa tecnologia e di elaborazione di una politica.

In altri termini, la partecipazione rappresenta un movimento totale di passaggio dalla coppia concettuale «creatività/riproduzione» al binomio « coinvolgimento/performatività».

Risulta evidente che una piena e totale partecipazione dovrebbe implicare una profonda trasformazione all’interno delle nostre società. Uno dei primi ostacoli sul piano sovranazionale è costituito dalle tensioni irrisolte fra l'Unione Europea e i propri Stati membri. La logica sociale del binomio «creatività/riproduzione» appartiene alla stagione iniziale di un servizio pubblico rimasto ancorato all’idea romantica di artisti in grado di guidare ed educare il popolo.

Risolvere il legame fra creatività e riproduzione ci costringe dunque a ripensare l’idea su come si costruisce una comunità relazionale e cosa sotto intende un contratto sociale di cittadinanza. La concezione contemporanea della partecipazione è collegata alla nozione di «industrie creative» e alla rivendicazione della centralità dell’«economia creativa». Ciò comporta una dinamica che modifica il concetto iniziale di industrie culturali. Il che ci consente di ritenere che la definizione contemporanea di creatività comporta un approccio fortemente individualistico verso la coesione sociale .

Tali dinamiche di cambiamento vanno ben al di là delle relazioni fra media e istituzioni pubbliche, ovvero impegnano le relazioni costitutive delle nostre società contemporanee, e dunque hanno conseguenze profonde su come concepiamo la natura e attribuiamo valore al lavoro culturale.

5. Per concludere, ci sia concesso osservare come Infocivica ci abbia preventivamente offerto alcuni spunti atti ad alimentare la nostra discussione. Possiamo essere o meno d'accordo sui singoli principi in dettaglio, ma vi è certamente materia per nutrire la nostra agenda.

Vorremmo sottolineare sei punti chiave:

5.1 - Le argomentazioni a proposito di come ricalibrare il ruolo del servizio pubblico si iscrivono in un contesto ad alta carica ideologica e di trasformazioni sociali che si rivelano difficilmente influenzabili.

Viviamo oggi una nuova ondata di neoliberalismo di fronte alla quale - sino ad ora – non esiste nessun progetto politico alternativo pienamente articolato e convincente. Se da un lato il servizio pubblico è ancora apprezzato in una società come la nostra dove dominano idoli e consumismo in una sorta di «proxitopia», dall’altro è del tutto necessario ripensare nelle loro radici le cause di quanto si è prodotto. Il dato varia naturalmente da Paese a Paese e dipende dalla specifica traiettoria storica ed istituzionale conosciuta sino ad oggi da ogni singolo servizio pubblico radiotelevisivo.

In ultima istanza, si tratta di riformulare e di chiarire gli ideali a ciò che costituisce [e fonda] la natura della comunicazione pubblica in una direzione in grado di catturare l’interesse della collettività.

5.2 - La questione delle modalità di finanziamento del servizio pubblico rimane fondamentale. La salvaguardia tradizionale del canone risulta sempre meno convincente nell’epoca degli abbonamenti e dei cambiamenti delle abitudini nell’acquisire servizi di comunicazione a pagamento.

La soluzione consiste nel riuscire ad assicurare un finanziamento al contempo equo e nel tempo sostenibile in un mercato caratterizzato dalla frammentazione. Equo in quanto come bene comune necessita di uno sforzo collettivo. Nel tempo sostenibile – in quanto una dimensione di certezza rimane necessaria affinché il servizio pubblico possa continuare ad assolvere il proprio compito al riparo da qualsiasi revisione capricciosa ed estemporanea dettata da circostanze politiche.

5.3 - Viviamo in un’era di concorrenza nella quale le grandi concentrazioni nel mercato privato guidano l’assedio contro gli organismi e le istituzioni di servizio pubblico. Non vi è ragione che questa situazione si vada a modificare.

La sfida è dunque di riconoscere che i legittimi (quanto illegittimi) interrogativi sulle dimensioni, sulle finalità e i raggi di azione sono generalmente sollevate dai critici e denigratori del servizio pubblico. Dobbiamo mettere in opera una nuova linea di difesa intellettuale capace di affrontare queste situazioni. Se la parola d’ordine rimane la difesa della qualità, ciò comporta un certo numero di conseguenze in materia di committenza, produzione e distribuzione.

Esistono altri criteri-chiave che devono essere oggetto di un’attenzione particolare? Larga parte dell’attuale discussione riguarda lo spazio occupato dal servizio pubblico nel panorama dell’offerta digitale. Quali servizi dovrebbero essere offerti dai servizi pubblici e come riusciranno a conquistare il gradimento del pubblico? Qual è la prima linea di difesa?

5.4 - Non è possibile discutere del futuro del servizio pubblico senza prenderne in considerazione i regimi regolatori. Essi indubbiamente variano in maniera rilevante.

Nell’attuale contesto dominante neoliberale, la deregolamentazione si sta largamente imponendo. Gli organi di regolamentazione costituiscono d’ora in avanti un importante campo di battaglia - al di là dei principi e degli interrogativi su dimensioni, finalità e raggi di azione – sia per gli Enti che regolamentano sia per coloro che sono soggetti alla regolamentazione.

Si tratta di una questione che ha una dimensione europea ma che nella pratica si gioca fondamentalmente a livello dei singoli Stati.

La costituzione di un campo di azione incaricato della regolazione congiunta dei settori pubblico e commerciale rappresenta un obbligo inevitabile? Certamente sì, in quanto il problema aperto rimane l’eccessiva regolamentazione del settore pubblico a fronte della crescita della deregolamentazione del settore privato, costituendo il perimetro decisivo dello scontro in atto.

5.5 - Il punto precedente ne ha come corollario un altro. Quella che in altri termini viene definita la questione dell'autonomia politica.

Le politiche sono dappertutto al cuore delle problematiche sui media. La radiodiffusione ha beneficiato di un’autonomia relativa e a certe condizioni, ma vi è ancora uno spazio importante – laddove esso è esistito - per aprire luoghi di dibattito, esplorare spazi alternativi e inedite modalità di espressione.

La regolamentazione deve sostenere l'autonomia ed è necessario che la dimensione europea operi come un contrappeso per quegli Stati in cui si producono infrazioni a questo principio.

Qualsiasi politica dei media è profondamente segnata dal fenomeno della concentrazione dei poteri nel mercato mediatico . L’interrogativo rimane ancora e sempre quello di sapere come riuscire a tenere sotto controllo le tendenze ad ingerire per finalità politiche di parte.

5.6 - In definitiva uno degli elementi-chiave che possiamo ricavare è costituto dal valore della comparazione. In che misura gli interventi della Commissione europea nei confronti degli aiuti di Stato colpiscono l’attività di radiodiffusione nei diversi Stati membri?

Il metodo comparativo consente in ultima istanza: l'identificazione delle migliori pratiche e soluzioni ai problemi correnti – quali metodi convincenti per iniziative di mercato adeguate per un nuovo servizio pubblico e infine, la comprensione analitica delle differenze fra i servizi pubblici in aderenza con le loro particolarità nazionali.

In conclusione, nel momento in cui ci sforziamo di immaginare nuove forme di servizio pubblico nello spazio europeo, occorre essere ben coscienti degli ostacoli obiettivi rappresentati dalla crescita del sentimento anti-europeo nel nostro Continente, dalle crisi politiche ed economiche, nonché della forza di svariati gruppi di interesse coalizzati contro l’idea stessa di servizio pubblico.

Il nostro ottimismo della volontà, pertanto, deve certamente essere contemperato dal pessimismo della ragione.

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